IL CUOCO, IL LADRO, SUA MOGLIE E L’AMANTE

IL CUOCO, IL LADRO, SUA MOGLIE E L’AMANTE

Scritto e diretto da Peter Greenaway

Il gangster Albert Spica (Michael Gambon) si reca abitualmente a cena con i suoi scagnozzi e la moglie Georgina (Helen Mirren) nel ristorante Le Hollandais di cui è co-proprietario con lo chef francese Richard Borst (Richard Bohringer); qui può esprimere indisturbato tutta la sua volgarità e la sua brutalità, parlando sguaiatamente, insultando e picchiando i commensali, il personale e gli altri clienti. Prima a fare le spese della sua violenza è la moglie, percossa ed umiliata in pubblico e in privato, che però nel ristorante intreccia  una storia d’amore con un altro cliente abituale, il colto e cortese libraio Michael. La toilette la cucina e le dispense diventano il teatro delle loro passioni, con la compiacenza del cuoco che li aiuta a non essere scoperti. Ciononostante, Albert viene presto a sapere dell’adulterio e, folle per la rabbia, sarebbe disposto ad uccidere i due amanti che però riescono a salvarsi grazie a Richard che li fa fuggire in un camion di carne putrefatta; così Georgina si rifugia con Michael nel magazzino di libri dove lui abita, pronta a passare così tutta la vita, ma l’idillio d’amore finisce in fretta, poiché Albert, avendo scoperto il nascondiglio, uccide Michael facendogli ingoiare le pagine dei suoi libri, scatenando così la vendetta di Georgina…

COMMENTO

La storia truculenta e passionale si sviluppa su nove giorni, introdotti dal menu della serata, in un climax ascendente di orrore e depravazione. La trama si spiega nel titolo: su questi quattro personaggi Greenaway innesta un gioco di antinomie fra volgarità e bellezza, personificate nel Ladro e nell’Amante. Albert è gretto, volgare e grossolano; mentre Michael è un uomo colto, educato, tutte le sue movenze e i suoi comportamenti sono garbati ed eleganti. In un film in cui l’arte culinaria è protagonista, è naturale che la conoscenza della lingua francese, forse anche per le sue sonorità dolci, diventi il punto di distinzione fra la bellezza e la volgarità. Albert non solo non parla il francese, ma, peggio, finge di conoscerlo, come se la volgarità del mondo tentasse di nascondere (a dire il vero con scarsi risultati) ciò che realmente è, in un’immensa professione di ipocrisia.

Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante non è solo un film, ma un capolavoro visionario che unisce in un’unica pellicola cinema, teatro e pittura. Appena dopo i titoli di testa infatti si apre un sipario che viene richiuso solo alla fine del film; le scene di esterni, per quanto poche, mostrano sempre spazi delimitati da veli, il parcheggio del ristorante diventa così un vero e proprio palco scenico più che un set cinematografico; del resto tutta l’azione scenica è impostata in modo piuttosto teatrale, tanto che lo stesso Greenaway ha detto di essersi ispirato a Seneca e al teatro giacobino ed elisabettiano del XVII secolo. Oltre che al teatro Greenaway in questo film affronta anche, con il prezioso aiuto del veterano del cinema Sacha Vierny, la pittura, creando effetti visivi estremamente suggestivi, con riprese che passano dalla natura morta al tableau mouvant, con atmosfere surrealiste in chiaroscuri caravaggeschi. Altro notevolissimo effetto visivo è quello dato dalle luci e dai colori, che mutano in relazione alla stanza: la cucina ad esempio è caratterizzata da forti chiaroscuri in toni verdi, la sala ha tendenzialmente luci uniformi e un colore rosso scarlatto, le toilette sono bianche, asettiche, con luci forti che danno un’atmosfera di sospensione, come se il luogo del tradimento fosse un bianco paradiso sospeso in una dimensione di inesistenza; ed anche i meravigliosi costumi di Jean Paul Gaultier sono soggetti a questi mutamenti. Le musiche semplici e geniali di Michael Nyman si contrappongono all’esasperazione quasi barocca delle scenografie, con ritmi scanditi, ripetitivi e un tocco medievaleggiante; dalle atmosfere sognanti della cucina nelle prime scene si arriva, col finale, a sonorità forti, drastiche, quasi apocalittiche.

In questo tripudio di cibo, sesso e violenza (per gli interessati all’argomento consiglio anche La Grande Abbuffata di Ferreri) vediamo l’apoteosi del grottesco da cui spicca un chiaro messaggio politico, (che lo stesso Greenaway ha confermato in un’intervista) in cui il Ladro è la metafora della nostra civiltà dei consumi che ingurgita tutto con la stessa semplicità affaristica con cui l’occidente ricco e opulento ha fondato la propria economia sulla povertà dei paesi del Terzo Mondo.

Un film, insomma, in cui è difficile trovare difetti: le interpretazioni sono assolutamente magistrali, a partire da un Michael Gambon che con le espressioni e con le movenze è indiscutibilmente perfetto: viscido e repellente. Tutto, dalle scenografie alle musiche, raggiunge completo svolgimento e ottiene il suo scopo. La regia ha pochi eguali, ogni scena è architettata secondo schemi esatti, le inquadrature sono espressive quasi sentimentali (ad esempio nel primissimo piano su Albert dell’ultima scena); nulla è lasciato al caso dal maestro, che è Greenaway.

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